Ancora una narrazione che non dà giustizia a quello che è successo. Descrivere come dettato da un “raptus” un femminicidio non fa capire come il fenomeno della violenza maschile contro le donne sia strutturale nella nostra società. Parole come “raptus”, “furia omicida”, oppure come spesso in altri articoli “sconvolto”, “lucida follia”, fanno intendere l’azione violenta come momentanea o come un’eccezione, e quindi attenuano le responsabilità di chi la agisce, così come termini quali “gelosia”, anche quando è “morbosa”, invece di utilizzare termini corretti come “possesso”, “controllo” o “disparità di potere”. Non è un’eccezione ciò che accade tutti i giorni in questo Paese, e parole inappropriate distolgono la narrazione tanto dalle sue cause profonde quanto dall’unicità della storia della donna e di tutte, su cui richiediamo un’attenzione rispettosa, senza spostare l’attenzione sul carnefice, col rischio di spettacolarizzare e sminuire le violenze; o sui parenti dello stesso, le cui parole non fanno altro che trovare una giustificazione al femminicidio e mettono in cattiva luce la figura di Marianna che ovviamente non può dare la sua versione dei fatti. Chiediamo di applicare il Decalogo dell’ordine dei giornalisti in merito alla narrazione degli episodi di violenza così come il Manifesto di Venezia, e soprattutto chiediamo di rendere giustizia alle donne, per spezzare un ciclo che prima di arrivare all’epilogo violento passa per la cultura, anche quella dei lettori, che meritano di essere informati al meglio.
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